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L PADRE
di Danilo Mastropierro

Dove sei stato, figlio mio?
Non importa.
Straniero ti trovo, e in ciò fratello, o figlio.

La tua fame è senza fondo,
ma secondaria ai tuoi occhi,
lampade colme d'olio non acceso,
un cane abbandonato dalla morte
che insegue le carrozze sigillate
sulle infinite vie delle province,

dita insensibili
ingioiellate come bambini stupidi
durante una festa bigotta.
Siediti, figlio.
È molto che hai lasciato questa casa.

Le stanze in affitto
nei cui letti hai rammendato il sonno sui calcagni,

sono luci di città cresciute male,
nella mia notte vaccinata dai lampioni.
Figlio, questa casa è una scatola di pandoro
coi fori per gli occhi,

come quella che ti feci indossare per gioco, un Natale.

Il mio corpo vi si muove,
ma i miei occhi sono imprigionati
da contorni di cartone,

indefinite cornici d'ombra da cui cerco di inquadrare i tuoi.

Non guardarmi.

Non voglio vedere i tuoi occhi
cerchiati dalla mia notte,
montatura per l'aria viziata
che traspare indiscreta tra di noi.
Scusa il disordine,
non ho ancora tolto dalla tavola
i gusci di noci dell'ultimo nostro Natale assieme,

occhi cavati dalle statue del nostro addormentarci in piedi,

cavalli di un manipolo disperso le cui divise,
stese al sole,
hanno cambiato il colore in quello del nemico.
Ma sei ancora in piedi, ancora sulla soglia?

Non preoccuparti se hai le scarpe infangate,
più spazzo il pavimento, più si copre di polvere.

Non calpesto mai le mie stesse impronte.
Tu, però puoi farlo.

Entra, senza guardare in terra,
incrocia i tuoi passi con le mie impronte.

Forse assieme potranno trasformare
questo suolo desertico in un nido di sentieri.

Sembrerà la casa di apprendisti ballerini ubriachi,
con tutte queste impronte che si incrociano,

sembrerà una casa molto più grande,
con passi che svaniscono dinanzi a stanze invisibili

nelle quali tu ancora non sei atterrato,
quando quel Natale,
dopo aver aperto i regali, ti lanciai in aria.



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grafica di angela campanella